Il rischio è una variabile fondamentale in materia di investimenti.
Ogni individuo è infatti caratterizzato da una specifica propensione al rischio finanziario, che rappresenta il livello di tolleranza individuale alla possibilità che il valore del proprio investimento possa oscillare più o meno sensibilmente nel corso del tempo.
Nel momento in cui decidiamo di investire sui mercati finanziari, dobbiamo tenere conto di questo fattore e scegliere lo strumento che meglio si adatta alle nostre preferenze e alle nostre esigenze finanziarie.
Per meglio valutare la propensione al rischio e compiere scelte coerenti, è quindi utile approfondire il concetto di rischio, le modalità di misurazione del rendimento e il rapporto esistente tra questi due fattori.
In campo finanziario, il rischio è l’incertezza legata al valore futuro di un’attività o di uno strumento finanziario o, più in generale, di un qualsiasi investimento.
Un’attività patrimoniale si definisce rischiosa se il flusso monetario che produce è almeno in parte casuale, cioè non è conosciuto in anticipo con certezza. Un titolo azionario è un classico esempio di attività rischiosa: non si può sapere se il prezzo aumenterà o diminuirà nel tempo, né se la società che lo ha emesso pagherà periodicamente i dividendi.
Per quanto i titoli azionari siano considerati attività rischiose per eccellenza, in realtà ne esistono molte altre.
Nel caso dei titoli obbligazionari, la società emittente potrebbe fallire e non restituire il capitale o corrispondere gli interessi ai sottoscrittori. Gli stessi titoli di Stato che maturano a 10 o 20 anni sono rischiosi: per quanto sia fortemente improbabile che il governo di un paese industrializzato vada in default (cioè non sia in grado di pagare quanto dovuto), il tasso d’inflazione può aumentare inaspettatamente, riducendo il valore reale degli interessi e del capitale restituito alla scadenza, e dunque il valore del titolo.
Un’attività priva di rischio o risk-free garantisce un flusso monetario certo. I titoli di stato a breve termine dei paesi più avanzati (come i Treasury Bill americani o i BOT italiani) sono privi o quasi di rischio. Giungendo a scadenza nel volgere di pochi mesi, il rischio legato a un aumento inatteso dell’inflazione è esiguo, e si può essere ragionevolmente certi che il governo non mancherà di corrispondere alla scadenza il capitale e gli interessi. Altri esempi di attività risk-free sono i depositi bancari a vista e i certificati di deposito a breve termine.
Perché siamo avversi al rischio?
In base al concetto di avversione al rischio gli individui mal sopportano gli eventi negativi, più di quanto apprezzino eventi positivi equivalenti. Per spiegare questo concetto, supponiamo di trovarci di fronte a questa opportunità: si lancia una moneta; se esce testa, si perdono 1000 euro; se esce croce se ne vincono altrettanti.
Accettereste la scommessa? Se siete avversi al rischio, molto probabilmente no. Per un individuo avverso al rischio, infatti, il danno che deriva dalla perdita di 1000 euro è superiore al beneficio di vincerne altri 1000. Per spiegare razionalmente un così diffuso comportamento istintivo, gli economisti hanno sviluppato un modello dell’avversione al rischio ricorrendo al concetto di utilità, cioè alla misura individuale soggettiva del benessere o della soddisfazione.
A ogni livello di ricchezza corrisponde una determinata misura di utilità, che decresce progressivamente all’aumentare della ricchezza stessa. Questo significa che all’aumentare della ricchezza, diminuisce l’utilità di un euro di ricchezza in più. A parità di ricchezza iniziale, quindi, la minore utilità che deriva dalla perdita di 1000 euro è superiore alla maggiore utilità apportata da una vincita di 1000 euro. Ecco spiegato perché gli individui sono generalmente avversi al rischio.
Per descrivere in modo accurato la nozione di rischio e analizzare le metodologie adottate per calcolarlo è necessario approfondire tre concetti fondamentali: probabilità, valore atteso e variabilità.
Probabilità
È la misura del possibile verificarsi di un determinato esito. La nostra interpretazione della probabilità può dipendere dalla natura dell’evento aleatorio, dalla valutazione che ne danno le persone che vi sono coinvolte, o da entrambi. Un’interpretazione oggettiva della probabilità si basa sulla frequenza con cui certi eventi tendono a verificarsi.
In mancanza di esperienze passate su cui basare la stima delle probabilità, non è possibile pervenire a una misura oggettiva; in quel caso, occorre affidarsi a valutazioni soggettive. La probabilità soggettiva è la percezione individuale del possibile verificarsi di un evento. Tale percezione può basarsi sul giudizio del singolo o sull’esperienza, ma non necessariamente sulla frequenza con cui l’evento si è verificato in passato.
Quando le probabilità sono determinate soggettivamente, la probabilità associata a un evento varia da individuo a individuo; pertanto, individui diversi possono compiere scelte diverse. Per esempio, se le esplorazioni petrolifere avvenissero in un’area precedentemente inesplorata, noi potremmo attribuire al successo una probabilità superiore a quella che gli attribuiscono altri, forse perché conosciamo più approfonditamente il progetto, o perché siamo esperti del settore petrolifero e possiamo sfruttare meglio le informazioni di cui disponiamo.
Che si tratti di informazioni diverse o di diverse competenze nell’elaborare le stesse informazioni, le probabilità soggettive variano da un individuo a un altro. Indipendentemente dall’interpretazione, la probabilità è usata poi per calcolare due importanti parametri che ci permettono di descrivere e confrontare situazioni rischiose: il valore atteso e la variabilità dei possibili esiti.
Valore atteso
È la media ponderata dei valori associati ai possibili esiti (payoff), calcolata usando come pesi le rispettive probabilità. Il valore atteso misura quindi la tendenza centrale, cioè il payoff che ci aspetteremmo in media. Definendo la “probabilità di” con Pr, possiamo esprimere il valore atteso come:
Valore atteso = Pr(successo)x(valore associato al successo)+ Pr(fallimento)x( valore associato al fallimento).
Un esempio: supponiamo di acquistare un’azione di una società. Se questa società venisse acquistata da un grande gruppo straniero, potremmo realizzare un guadagno di 0,40 euro; in caso contrario, il nostro guadagno sarà di soli 0,20 euro.
Se valutiamo la probabilità dell’acquisizione al 25 per cento, pari a 1/4, avremo un valore atteso di (1/4)( 0,40 euro)+(3/4)( 0,20 euro)=0,25 euro.
Variabilità
È la misura in cui i possibili esiti di un evento incerto differiscono.
Per capire l’importanza di questo concetto, supponete di dover scegliere se investire 10.000 euro in due titoli azionari con la stessa remunerazione attesa (1.500 euro). Il titolo azionario A è emesso da una società nuova, con un prodotto fortemente innovativo da lanciare, e offre due payoff di pari probabilità: se il prodotto ha molto successo, guadagnate 2000 euro; se ne ha poco, ne guadagnate solo 1000.
Il titolo azionario B è di una società che esiste da molti anni, con un mercato consolidato: la probabilità di guadagnare 1510 euro è molto elevata (0,99), ma c’è una probabilità su cento che l’azienda fallisca, nel qual caso guadagnereste solo 510 euro.
I due titoli hanno lo stesso reddito atteso:
Titolo A – (0,5)(2.000 euro) + (0,5)(1.000 euro) = 1.500 euro
Titolo B – (0,99)(1.510 euro) + (0,01)(510 euro) = 1.500 euro.
La variabilità dei possibili payoff, tuttavia, è diversa. Per misurare la variabilità, occorre riconoscere che quanto maggiore è la differenza (negativa o positiva) tra il payoff atteso e il payoff effettivo, tanto maggiore è il rischio. Chiamiamo questa differenza deviazione o scarto. La deviazione in sé non offre una misura della variabilità; infatti, assumendo di volta in volta valore positivo o negativo, la sua media ponderata in base alla probabilità è sempre nulla.
Per aggirare questo problema, basta elevare al quadrato le deviazioni, al fine di ottenere valori sempre positivi: con questo espediente possiamo misurare la variabilità calcolando la deviazione standard, o scarto quadratico medio: la radice quadrata della media ponderata dei quadrati delle deviazioni dei payoff dal loro valore atteso, calcolata usando come pesi le rispettive probabilità.
Nel nostro esempio, avremo: Titolo A – (0,5)(5.002 euro) + (0,5)(-5.002 euro) = 250.000 euro. La deviazione standard del Titolo A è quindi uguale alla radice quadrata di 250.000 euro, cioè 500 euro.
Analogamente, per il Titolo B: Titolo B – (0,99)(102 euro) + (0,01)(9.902 euro) = 9.900 euro. La deviazione standard del Titolo B è la radice quadrata di 9900 euro, cioè 99,50 euro.
In conclusione, il Titolo B è molto meno rischioso del Titolo A, dato che la deviazione standard della sua remunerazione è molto più bassa. Il concetto di deviazione standard si applica naturalmente anche nel caso di più di due possibili esiti e di esiti con probabilità diverse.